Il dato diventa quindi un facilitatore di migliori esperienze e di journey “semplicemente” più fluidi (per esempio, nell’e-commerce del fashion: filtro il catalogo per la taglia del cliente) senza puntare per forza a una iper-personalizzazione, che potrebbe essere poco raggiungibile o comunque non efficiente. Si tratta dunque di lavorare al “fine tuning” di un “proprio” livello e modalità di personalizzazione, adattata al proprio settore e al proprio modello di business. In un caso, quindi, utilizzando e facilitando le stesse interazioni personali (come nel settore del lusso o delle assicurazioni “tradizionali”), in altri casi, nell’orchestrare messaggi coerenti con il ciclo di vita del cliente e le sue abitudini, cercando di “non essere assenti tra un rinnovo e l’altro” (nel caso del settore assicurativo), ma nemmeno di assillare un cliente la cui casella di posta non è certo priva di sollecitazioni.
Paradossalmente, “il fattore umano” è risultato essere intrecciato a vari momenti decisivi nel rapporto tra marketing e dato: il supporto delle persone “sul campo” per gli agenti di ricezione di informazioni aggiuntive, nella attivazione del consenso, nella gestione del feedback digitali post visita in negozio/agenzia. Al tempo stesso, l’esperienza online non può più essere indifferenziata. Non a caso sono tutte modalità di integrazione tra online e offline, nel dato come nell’esperienza dell’utente.
In questo scenario i temi dell’automazione sono importanti, ma devono seguire un percorso che parte appunto dalla unicità di ogni brand, dalla centralità del cliente e delle informazioni raccolte, facendo prima le “cose essenziali”, come unificare i journey e i linguaggi tra online e offline, far crescere la cultura del digitale e del cliente in azienda. Certo, i risparmi in termini di tempo e lavoro di staff della marketing automation sono importanti, ma è necessario trovare un equilibrio in cui il cliente non si senta “perseguitato” ma valorizzato nella sua unicità. Occorre mantenere un “human touch”, concordano tutti i partecipanti.
Il panel è fiducioso che la personalizzazione funziona, lo confermano i test, ma la considera anche un equilibrio delicato e non scontato. Anche dal punto di vista dei costi associati al “consenso” necessario, che è tutto tranne che scontato in questa fase, da parte del consumatore. Nella Value Exchange Economy, ogni brand deve prendere coscienza del senso del rapporto “attivato” con i propri utenti e consumatori: deve offrire vero valore, rassicurare sull’uso del dato e presentare l’opportunità di essere contattato (e di creare una relazione) nel migliore dei modi, usando spesso anche le relazioni “in presenza”. E sicuramente integrare i dati che si hanno già, senza richiederli nuovamente ai clienti.
Al tempo stesso è necessario far crescere la consapevolezza di questo valore anche all’interno dell’azienda, e per farlo è necessario innanzitutto misurare: attraverso test misurare i costi del consenso, e attraverso analytics il suo valore in termine di lifetime value e relazione di lungo periodo. Perché senza relazione diretta non è possibile scaricare a terra, con la massima potenza possibile, ogni potenzialità di miglioramento del journey, di personalizzazione, di orchestrazione dei vari messaggi.